Referente: Dr.ssa Simonetta Marucci – simonetta.marucci@gmail.com
BIA E DCA
Il trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione costituisce ancora oggi una sfida terapeutica per gli operatori coinvolti nella cura di questi disordini. La natura egosintonica del Disturbo Alimentare con scarsa e a volte assente consapevolezza di malattia determina una percentuale comunque alta dei Dropout con una maggiore incidenza (fino al 70%) nel trattamento ambulatoriale. L’incremento della motivazione del paziente al cambiamento è considerata oggi da molti un focus iniziale nella terapia dei DCA ed è un predittore importante del buon esito del trattamento.
In quest’ottica va inquadrato l’esame bioimpedenziometrico, che può essere utilizzato in due modalità distinte in questi pazienti:
- Come strumento per valutare lo stato nutrizionale del soggetto
- Come fortissimo strumento motivazionale al cambiamento.
L’impedenziometria, conosciuta come analisi dell’impedenza bioelettrica (BIA) per la valutazione della composizione corporea , è un metodo non invasivo, poco costoso, di semplice esecuzione in qualsiasi contesto, dall’ambulatorio alla terapia intensiva, riproducibile e adatto alla routine. La misurazione bioimpedenziometrica è quindi utilissima nei soggetti affetti da DCA non solo ai fini di valutare lo stato nutrizionale nelle fasi di rialimentazione, ma anche per distogliere l’attenzione dal rigido controllo del peso corporeo, che non va più considerato in termini assoluti ma come sommatoria di più compartimenti, a loro volta indicativi di diversi stati di nutrizione e salute.
E’ questo infatti il potere più grande della BIA: scardinare l’ossessione del numero dato dalla bilancia, troppe volte giudice supremo nella vita delle pazienti affette da DCA, facendo pian piano balenare l’idea che il corpo umano è una macchina molto più complessa rispetto alla banalizzazione utopistica del peso. Metabolismo basale, massa magra, massa grassa, liquidi intra ed extra cellulari, angolo di fase, sono tutti termini che gradualmente entrano nella quotidianità clinica delle pazienti, termini con cui incominciano pian piano a fraternizzare, termini in cui incominciano pian piano a ragionare; non esiste più il peso con le sue imprescindibili, incomprensibili e temute modificazioni. Si riesce alla fine a dare insieme una spiegazione logica e scientifica (e quindi rassicurante) a cose che altresì verrebbero negate o vissute con senso di vergogna e/o di auto inefficacia. L’aumento della consapevolezza, e quindi della motivazione, avviene però non in maniera automatica attraverso la mera esecuzione dell’esame, ma attraverso la lettura critica, insieme al paziente, dei valori che la macchina ci fornisce. Ne consegue quindi che il momento della restituzione dell’esame è una fase cruciale; il terapeuta deve necessariamente essere formato non solo per quanto riguarda il funzionamento del macchinario e della fisiopatologia umana, utili per poter decodificare i dati forniti dallo strumento, ma deve avere anche ben chiaro quale obbiettivo terapeutico vuole in quel momento raggiungere (o quale difficoltà vuole in quel momento aiutare il paziente a superare), scegliendo quindi il “taglio” più corretto da dare alla restituzione dell’esame.
Con questo non si ha certo la pretesa di affermare che la BIA sia la panacea o l’antidoto ai DCA; la BIA rappresenta semplicemente un ipotetico strumento dei tanti che possono essere presenti nella metaforica cassetta degli attrezzi che ogni terapeuta porta costantemente con se a qualsiasi livello di cura: ambulatoriale, residenziale e ospedaliero. Stà poi all’equipe multidisciplinare (vero cervello pensante dell’evolversi del percorso terapeutico dei pazienti affetti da DCA) decidere se, ma soprattutto quando, usarla.
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